Riso contaminato, scatta l’allerta per questa tipologia coltivata in Italia: “Alti livelli di metalli pesanti”

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Un’indagine internazionale rivela concentrazioni elevate di metalli pesanti nel riso: i dati sollevano interrogativi sulla qualità di uno degli alimenti più consumati nel mondo.
Un report diffuso da Healthy Babies, Bright Futures, in collaborazione con la CNN, ha portato alla luce livelli rilevanti di metalli pesanti in diversi campioni di riso distribuiti negli Stati Uniti e in Europa. L’indagine ha esaminato oltre 145 campioni, rivelando che una parte consistente supera le soglie di arsenico inorganico stabilite per i prodotti alimentari destinati ai bambini. Tra le varietà maggiormente coinvolte, spicca il riso Arborio proveniente dall’Italia, spesso utilizzato nella cucina casalinga e nella ristorazione. I valori registrati indicano un problema concreto legato alla filiera e alla coltivazione, con ripercussioni dirette su salute pubblica e sicurezza alimentare.
I valori registrati nei campioni e le criticità emerse
L’indagine, ha misurato concentrazioni di arsenico e cadmio in percentuali superiori alle attese in numerose tipologie di riso. Circa un quarto dei campioni ha superato il limite dei 100 ppb (parti per miliardo) fissato dalla FDA statunitense per i cereali destinati all’infanzia. Va evidenziato che questa soglia non si applica al riso in generale, il quale però viene regolarmente consumato anche da bambini molto piccoli e da donne in gravidanza.
Secondo Jane Houlihan, direttrice scientifica della ricerca, il riso rappresenta una fonte primaria di esposizione all’arsenico per i bambini sotto i due anni, più dei prodotti specificamente pensati per loro. L’arsenico inorganico, rilevato nei test, è classificato come cancerogeno e può provocare effetti seri sul lungo periodo: danni neurologici, ritardo nello sviluppo cognitivo, problemi renali, aborti spontanei e parti prematuri. Anche la presenza di cadmio, riscontrato in quasi tutti i campioni, rappresenta un fattore di rischio, in particolare per fegato e apparato nervoso centrale.

Il riso Arborio italiano, analizzato tra gli altri, ha mostrato una concentrazione totale di 142 ppb, di cui 101 ppb attribuiti all’arsenico. Il valore registrato lo pone tra i più elevati dell’intera ricerca, con livelli di cadmio che superano nettamente la media. La diffusione di questo prodotto sulle tavole italiane e internazionali impone una riflessione urgente sull’origine della contaminazione: suolo, acqua di irrigazione o tecniche agronomiche. Il dato resta, per ora, senza una spiegazione ufficiale da parte delle autorità sanitarie nazionali.
Le risposte del settore e le possibili alternative alimentari
Alla pubblicazione del rapporto, la USA Rice Federation ha replicato dichiarando che il riso coltivato negli Stati Uniti contiene, in media, le quantità più basse di arsenico inorganico al mondo. Un’affermazione che, seppur sostenuta da alcune analisi precedenti, non smentisce le criticità evidenziate nel documento. Houlihan ha sottolineato come il problema sia più esteso, coinvolgendo l’intero comparto produttivo del riso e non una singola regione o varietà.
Lo studio ha anche evidenziato che i cereali alternativi – come farro, quinoa e grano saraceno – presentano una quantità di arsenico fino a 28 volte inferiore rispetto al riso. Queste opzioni, pur con qualche eccezione nei livelli di cadmio, risultano meno rischiose per chi vuole ridurre l’esposizione ai metalli pesanti. I consumatori più attenti, specie quelli con bambini piccoli in casa, potrebbero valutare una diversificazione nella dieta per contenere i potenziali danni da accumulo.
Per chi non intende rinunciare al riso, alcuni accorgimenti possono abbassare i livelli di contaminazione. Il lavaggio accurato dei chicchi e la cottura in eccesso d’acqua (rapporto 6:1) con successivo scolamento contribuiscono a ridurre la presenza di arsenico, pur senza eliminarlo del tutto. Queste pratiche, abbinate a una maggiore trasparenza da parte dei produttori, potrebbero rappresentare un primo passo verso una filiera più sicura. La consapevolezza resta l’unico strumento reale a disposizione del consumatore, in un quadro dove la sicurezza alimentare non può dipendere solo da dichiarazioni rassicuranti o da controlli parziali.