
Acqua del rubinetto, altro che potabile - fashionblog.it
Un’indagine di Greenpeace ha trovato PFAS in oltre il 75% dei campioni d’acqua analizzati in Italia. Alcune sostanze superano i limiti fissati in Danimarca e USA.
Tra settembre e ottobre 2024, Greenpeace ha condotto un’indagine su 260 campioni d’acqua potabile prelevati in 235 comuni italiani, scoprendo che oltre il 75% dei campioni è contaminato da almeno uno dei 58 composti PFAS analizzati. La ricerca, intitolata Acque senza veleni, fotografa una situazione di diffusa contaminazione chimica che coinvolge quasi tutte le regioni, con punte critiche in aree già note per precedenti casi di inquinamento industriale. Tra i composti rilevati, figurano anche quelli vietati a livello internazionale o classificati come possibili cancerogeni. Una condizione che, in altri Paesi, verrebbe già considerata una minaccia per la salute pubblica.
Sostanze perfluoroalchiliche: cosa sono e perché preoccupano
I PFAS, sigla che indica le sostanze per- e poli-fluoroalchiliche, sono composti chimici artificiali usati da decenni per realizzare prodotti resistenti all’acqua, ai grassi e al calore. Trovano impiego in pentole antiaderenti, tessuti tecnici, imballaggi alimentari, schiume antincendio e numerose lavorazioni industriali. Il problema è che non si degradano: una volta rilasciati nell’ambiente, restano attivi per decenni, accumulandosi nel suolo, nelle acque e negli organismi viventi.

Il loro effetto sull’uomo è oggetto di studi sempre più approfonditi. Diverse ricerche collegano l’esposizione prolungata a disfunzioni ormonali, patologie epatiche, abbassamento della fertilità, oltre che a aumenti di rischio per alcune forme tumorali. Tra le sostanze rilevate da Greenpeace c’è il PFOA, vietato a livello globale ma presente nel 47% dei campioni italiani, e il PFOS, considerato possibile cancerogeno secondo l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC), riscontrato nel 22% delle analisi.
Particolarmente critico il TFA, composto ultra-corto difficile da eliminare persino con i sistemi di filtrazione avanzati. È stato rinvenuto nel 40% dei campioni, anche in aree rurali dove non ci si aspetterebbe un’esposizione simile. Questo dimostra che la contaminazione si è già spinta ben oltre i siti industriali o le aree urbane, insinuandosi nelle falde acquifere e quindi nelle condotte domestiche.
Limiti normativi e richieste di Greenpeace al governo italiano
Nonostante la gravità dei dati, l’Italia non ha ancora stabilito limiti vincolanti per la concentrazione di PFAS nell’acqua potabile. La direttiva europea 2020/2184, che entrerà in vigore nel gennaio 2026, fissa un tetto massimo di 100 nanogrammi per litro per la somma di 24 composti. Ma secondo l’Agenzia europea per l’ambiente, questa soglia è troppo alta per garantire una protezione efficace.
Nel frattempo, Danimarca, Svezia e Germania hanno adottato limiti più rigidi e già avviato piani di bonifica e monitoraggio continuo. Il confronto è impietoso: il 41% dei campioni analizzati da Greenpeace supera i limiti imposti in Danimarca, mentre il 22% sforerebbe quelli stabiliti negli Stati Uniti. In Italia, quegli stessi valori sono considerati ancora “accettabili”.
Greenpeace chiede un’azione immediata. Tra le misure proposte: l’introduzione urgente di limiti più severi, una rete di controlli frequenti e pubblici, e soprattutto l’eliminazione graduale dell’uso industriale di PFAS. In alcune aree, l’inchiesta ha già spinto enti locali a rafforzare i controlli e a comunicare i risultati ai cittadini, ma per l’organizzazione ambientale non basta.
L’Italia resta indietro su un tema che riguarda la salute pubblica, la qualità dell’acqua e la fiducia nelle istituzioni. La presenza dei PFAS non è un rischio ipotetico ma una realtà misurata. L’obiettivo, secondo Greenpeace, deve essere chiaro: intervenire ora, prima che questa contaminazione invisibile diventi una crisi sanitaria irreversibile.