
Ecco perché Bali può trasformarsi in un incubo ad occhi aperti - fashionblog.it
Bali attrae milioni di visitatori con immagini perfette, ma dietro ai post patinati si nascondono inquinamento, traffico, trappole per turisti e una crisi d’identità sempre più evidente.
C’è stato un tempo in cui Bali rappresentava una fuga mistica, uno spazio sospeso tra foreste e templi, dove ritrovare silenzio e sé stessi. Il mito ha trovato nuovo vigore dopo il successo globale di “Mangia, prega, ama” e, più tardi, grazie all’esplosione di Instagram e video motivazionali su TikTok. Ma oggi, a distanza di anni, il sogno collettivo scricchiola. Sono sempre di più i viaggiatori che raccontano un’esperienza diversa: spiagge sporche, file per i selfie, traffico congestionato e prezzi triplicati.
L’isola indonesiana ha accolto 2,6 milioni di turisti stranieri solo nei primi cinque mesi del 2025. Un numero impressionante, che però mette in crisi le infrastrutture locali. Chi arriva con aspettative alte spesso rimane spiazzato da una realtà che ha perso gran parte dell’autenticità che l’aveva resa celebre. E dietro lo sguardo assorto dei guru e dei tramonti in slow motion, si intravedono i limiti di un turismo di massa non più sostenibile.
Traffico, rifiuti e caos: il vero volto dell’isola
Le spiagge di Bali, fotografate milioni di volte, appaiono diverse una volta raggiunte. Soprattutto nella stagione delle piogge, la linea di costa viene sommersa da immondizia portata dal mare e dai fiumi in piena. Le cascate famose, da lontano poetiche e immerse nella giungla, da vicino si rivelano affollate, con sentieri invasi da rifiuti e file di persone in attesa di immortalarsi nel punto giusto.

A Ubud, un tempo cuore spirituale dell’isola, i motorini ronzano giorno e notte, mentre la calma evocata nel film con Julia Roberts sembra scomparsa. Seminyak, da villaggio marittimo tranquillo, è oggi una sequenza infinita di beach club, cocktail bar e feste a volume alto. L’atmosfera mistica ha ceduto il passo al business e al traffico. Le strade sono strette, spesso dissestate, e i trasporti pubblici quasi inesistenti. Muoversi da un villaggio all’altro può richiedere anche due ore per pochi chilometri, respirando smog e clacson.
I costi salgono: per accedere a un tempio, per entrare in una terrazza di riso, per scattare una foto da un’altalena sospesa. Molte esperienze vengono vendute come “autentiche”, ma si scopre che c’è sempre un ticket, un pacchetto o una guida da pagare. I venditori ambulanti sono ovunque, a volte insistenti, e i prezzi per turisti sono spesso gonfiati rispetto a quelli per i locali.
L’effetto influencer e la crisi d’identità di Bali
Chi ha alimentato il sogno, oggi rischia di rovinarlo. I travel influencer, con i loro video curati e le caption ispirazionali, hanno contribuito a costruire un’immagine di Bali che esiste soltanto nei loro profili. Alcuni turisti, influenzati da questa narrazione, arrivano con aspettative irreali: meditazione all’alba tra la giungla e yoga vista mare, in un silenzio irreale. Poi scoprono la ressa, le code, il rumore costante, e restano delusi.
In certi casi decidono perfino di anticipare il rientro. Le scene di benessere e contemplazione spesso non reggono al confronto con il caos della realtà. C’è chi ha definito Bali “una trappola costruita per i social”, dove ogni angolo è allestito per produrre contenuti, ma pochi luoghi lasciano davvero qualcosa dentro.
A risentirne è anche il rapporto con la popolazione locale. Il boom turistico ha creato guadagni, ma anche tensioni: rituali snaturati, templi trasformati in sfondi e abitudini tradizionali che cedono il passo a ciò che “vende”. Il mito dell’isola spirituale si confronta ogni giorno con l’urgenza di ripensare tutto: l’accoglienza, il numero di visitatori, le regole.