
Carta igienica, evita queste marche come la peste - fashionblog.it
Una ricerca dell’Università della Florida rivela tracce di PFAS nella carta igienica. Ecco cosa sono queste sostanze, perché preoccupano e cosa dice la scienza sui rischi per la salute.
Era conosciuta per la morbidezza, per la tenuta agli “strappi” e, nei mesi più freddi, persino per la sensazione di comfort che sa offrire. Ora però, la carta igienica è al centro di un caso internazionale. Un gruppo di ricercatori dell’Università della Florida, coordinato dal professor Timothy G. Townsend, ha rilevato la presenza di PFAS in 21 marchi commercializzati tra America, Europa e Africa. L’indagine non specifica le marche coinvolte, ma i dati raccolti indicano una diffusione ampia e costante. Il problema, spiegano gli studiosi, non è solo l’impatto sulla pelle ma anche sull’ambiente: le sostanze finiscono nei sistemi fognari, attraversano gli impianti di trattamento delle acque e possono contaminare i corsi d’acqua. “La carta igienica dovrebbe essere considerata una fonte significativa di inquinamento idrico”, ha dichiarato il professor Townsend. E l’eco mediatica è stata immediata.
La presenza dei PFAS nei prodotti quotidiani: cosa sappiamo davvero
L’allarme è fondato? I PFAS sono sostanze già ben conosciute in ambito medico e ambientale: composti chimici altamente persistenti, impiegati da decenni in vari settori per le loro proprietà idrorepellenti e oleorepellenti. Vengono usati nei tessuti, nelle pentole antiaderenti, nei packaging alimentari, nei cosmetici e, come emerso ora, anche nella carta. Secondo il professor Carlo Foresta, presidente della Fondazione Foresta Onlus e docente all’Università di Padova, “la quantità di PFAS trovata nella carta igienica è relativamente bassa. È possibile che non faccia parte del materiale stesso, ma derivi dai macchinari industriali impiegati nella produzione, dove viene usata come lubrificante”.

Il problema, tuttavia, resta. Le tracce presenti sono un segnale da non ignorare, anche se i livelli misurati non risultano per ora direttamente nocivi. I PFAS possono penetrare nell’organismo anche attraverso la pelle, ma non esistono ancora studi che abbiano chiarito se e come possano entrare nel corpo umano nel contesto dell’uso quotidiano della carta igienica. Questo, però, non riduce l’attenzione: “Ogni esposizione conta” ribadisce Foresta, “perché si tratta di sostanze cumulative, che restano fino a dieci anni nel nostro organismo”.
I dati Istat mostrano che in Italia il consumo annuo di carta igienica è di 6,3 chili pro capite, circa 70 rotoli. Una cifra ben inferiore rispetto a Germania e Regno Unito, e ancora lontana dai quasi 26 chili annui degli Stati Uniti. Il minor consumo potrebbe ridurre il rischio, ma resta il problema della diffusione ambientale, soprattutto attraverso le acque reflue.
Effetti clinici e sperimentazioni per ridurre i danni da PFAS
I rischi legati ai PFAS sono documentati da numerosi studi epidemiologici. Le esposizioni, anche a basse dosi, sono associate a problemi riproduttivi, ormonali, immunitari, metabolici e cardiovascolari. Tra le manifestazioni più comuni: poliabortività, basso peso alla nascita, infertilità, colesterolo alto, diabete, osteoporosi, tireopatie, e alterazioni del sistema nervoso. Secondo le ricerche condotte a Padova, i PFAS interferiscono con il recettore del testosterone, riducendo l’attività degli ormoni sessuali. Agiscono anche sui spermatozoi, compromettendone la motilità. Un altro dato allarmante riguarda il legame con il recettore della vitamina D, che potrebbe contribuire all’insorgenza dell’osteoporosi. “Nei nostri studi abbiamo osservato anche una possibile connessione tra PFAS e eventi trombotici”, afferma Foresta, “a causa dell’attivazione delle piastrine”.
Il problema principale resta la permanenza nel corpo umano: si accumulano in organi come fegato, ossa e sangue, restando attivi per anni. Anche in assenza di nuove esposizioni, le sostanze non scompaiono. Ad oggi, non esistono trattamenti farmacologici riconosciuti in grado di eliminarle dal sangue.
Alcuni studi recenti, però, stanno aprendo nuove strade. Il team del professor Alberto Ferlin, sempre a Padova, ha sperimentato l’uso del carbone attivo vegetale come possibile metodo per “drenare” i PFAS dall’organismo. Il carbone attivo, già usato in casi di intossicazione alimentare e avvelenamento, agisce legando le molecole chimiche a livello intestinale, facilitandone l’espulsione. La sperimentazione è ancora in corso, ma rappresenta una delle ipotesi più concrete finora proposte.
La prevenzione, intanto, resta l’unica difesa reale. Ridurre l’esposizione, controllare le fonti industriali, monitorare le acque potabili e vigilare sulla filiera alimentare sono misure essenziali. Ma serve anche una normativa più severa e uniforme a livello internazionale, per impedire che sostanze così resistenti finiscano nei prodotti di uso quotidiano. Come, appunto, la carta igienica.